Il Maestro Martini

L'ALIMENTAZIONE

Se paragoniamo il mangiare del tempo attuale (1995) a quello di un tempo, di mezzo secolo fa, sarebbe come paragonare una città ad un piccolo centro abitato.

Tutto è cambiato, stravolto e forse esagerato.

 Al mattino tutti si alzavano molto presto, anche i più piccoli e i vecchi, e, al sorgere del sole erano già in piedi da tempo.

Alla data del 7 settembre 1920, ore 7, io ero già a cogliere le mele con i miei genitori, avevo sette anni, altrimenti sarei stato sepolto dalle macerie della mia casa.

La colazione consisteva, per gli adulti, nella minestra riscaldata, lasciata la sera prima; per i piccoli più fortunati, i figli dei contadini, polenta dolce zuppata nel latte appena munto. Mentre i figli degli operai si accontentavano di sola polenta dolce del giorno prima, oppure non facevano colazione.

A metà giornata, per tutti c’era la polenta di farina dolce e, come “companatico”, formaggio o baccalà, cipolle unte nell’olio, un po’ di carne di maiale come salumi, pancetta e coppa. Patate fritte con cipolle e pomodori, oppure lesse, condite con olio e sale.

Il pane era un lusso che pochi potevano permettersi.

La carne era fornita dai conigli. Non esisteva la macelleria.

La sera c’era la minestra, con pasta fatta in casa: i “taglierini”.

Per preparare questi ultimi, la mamma impastava farina di grano o di farro. Poi preparava la sfoglia, usando il “matterello”, un legno lungo 60/70 cm. e rotondo, con cui si assottiglia la pasta che viene arrotolata e tagliata in piccole strisce.

Si univano fagioli, patate, foglie di cavolo ed altra verdura, aggiungendo come condimento, un pezzo di lardo, tritato, con un battuto  di aglio e cipolla.

La cena era il pasto più abbondante.

Nell’inverno si usava fare le “mondine”, o “caldarroste”, castagne cotte con la buccia in una padella bucherellata.

Per cuocere la minestra si usava il “laveggio”, dal latino “lapideum”, era una specie di pentola di bronzo con tre piedini.

Dopo la cena il capofamiglia iniziava la recita del Santo Rosario. I ragazzi già dormono. Le donne filano la lana o la canapa, gli uomini preparano gli zoccoli per la famiglia, oppure accudiscono ad altri lavori.

Qualche vecchio, in un cantuccio, si permette il lusso di fumare con una pipa senza tabacco.

 Si chiude così la giornata, al chiaro di un lumino a petrolio, oppure del focolare acceso.

Il capofamiglia programma il da farsi per domani: così tutti sono già pronti per una nuova giornata di  lavoro, di fatica e di stenti.

Alle famiglie povere, che non avevano un palmo di terra e che avevano ragazzi di tenera età, il Podestà, rilasciava un certificato di “povertà”, con il quale potevano “mendicare” nei paesi e tenere una capra da far pascolare lungo il greto del fiume, lungo le strade comunali, ma tenuta alla corda, lunga al massimo tre metri.

Nei mesi di ottobre, novembre e dicembre, alcuni giovani andavano a “veglia” nei “metati”, o seccatoi delle castagne. Stavano al caldo, con tanto fumo che faceva pizzicare gli occhi. Altri raccontavano le “fole”, dal latino “fabula, le favole.

Le favole non avevano né capo né coda: non finivano mai e per sapere la fine occorreva partecipare alla prossima … puntata!

Ho sentito raccontare la “favola” del Paladino Orlando, della Gerusalemme Liberata, di Nerone il crudele, della strage degli innocenti.

Qualche invitato portava un fiasco di vino, tutti bevevano “alla canna” e così si concludeva la serata.

La spesa familiare

Qualcuno si domanderà: “Ma se non compravano nulla?”

Compravano poco, pochissimo, mancava il denaro per pagare. Alcuni compravano un po’ di zucchero per gli ammalati, rari erano coloro che acquistavano il caffè.

Bisognava essere autosufficienti. Il caffè si faceva con il grano, ceci, orzo abbrustolito in una una padella e poi macinato col “macinino”.

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Ultimo aggiornamento: 05-06-25