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Il Maestro Martini |
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NOTE DI IGIENE L’acqua potabile Il primo acquedotto a Pive San Lorenzo fu costruito nel 1928 con una cifra di lire ottomila. Prima di tal data, l’acqua per tutti veniva attinta nel fiume. Prima di bere in qualunque luogo recitavano lo scongiuro: ”Acqua corrente, ha bevuto il serpente, ha bevuto dio, posso bere anch’io.” Purtroppo i casi di tifo e di colera erano assai comuni. I cessi, oppure gabinetti non esistevano. Alcune famiglie
benestanti avevano, nei pressi della casa, un casottino di paglia e lo
chiamavano “loco comodo”. La lotta contro le mosche era fatta con mazzetti di felce
cosparsi di farina dolce. Le mosche vi si posavano, mangiavano e si
addormentavano, a sera tutto veniva gettato nella fiamma del focolare. Il
“bucato”
Per lavare la povera biancheria si ricorreva al “bucato” in un vaso di terracotta. La biancheria bagnata veniva stesa a strati nel vaso, fin quasi all’orlo. Si stendeva sopra un telo di iuta, oppure di canapa, detto “il cendrone”, o “cenerone”, con uno strato di cenere del focolare. Si versava acqua bollente per diverse ore. L’acqua penetrando nella biancheria, fuoriusciva dal sottostante foro, detto “bugno”, veniva ripresa, riscaldata di nuovo fino all’ebollizione e versata sullo strato di cenere, produceva il “ranno”.
Dopo alcune ore il bucato era fatto. Andavano a lavare i panni nel fiume, oppure in qualche lavatoio. La biancheria era pulitissima, disinfettata, con profumo di pulito.
Il
sistema del bucato con “ranno” era praticato anche all’ospedale di
Fivizzano. Avevano grandissimi vasi di terracotta che riempivano di biancheria
ed una donna, incaricata, raccoglieva la cenere del focolare di tutta la
cittadina per fare il bucato. La cenere era offerta dalle famiglie senza
compenso. La sputacchiera Nelle stazioni ferroviarie, nei luoghi pubblici, era sistemato un recipiente triangolare con calce viva in polvere e la scritta : “Sputa qui”, il recipiente era posto negli angoli delle stanze o dei locali. Molti sputavano in chiesa, perché avevano il vizio di masticare il sigaro, i cosiddetti ciccatori. Anche alcune donne ciccavano. Il pievano don Armenio Notari
appese cartelli alle colonne con la scritta: “Per rispettare il luogo sacro
non sputare per terra” (anno 1950/1955). Le ferite da taglio si curavano con un impasto di erba
della Madonna e ragnatele. Molti
morivano per tetano. L’acqua salata e l’aceto erano ritenuti un buon
medicamento. Gli uomini che lavoravano nei boschi e si ferivano usavano come
rimedio immediato orinare sulla ferita. Il latte di mucca era bevuto senza bollitura. Molti pastorelli, spinti dalla fame, fermavano una mucca e succhiavano il latte. Altri si davano da fare a catturare uccelli, a cercar nidi per alleggerire i morsi della fame. I ragazzi e le ragazze erano autosufficienti ed utili:
custodivano le mucche e le pecore, portavano l’acqua col secchio dalla
fontana, pulivano la stalla, raccoglievano la legna, annacquavano i fagioli e le
patate negli orti sul letto del fiume, rastrellavano il fieno, raccoglievano le
castagne e le olive. Si ricorda un pastorello che avendo perduto il branchetto delle pecore condotte al pascolo nelle selve, a sera non tornò a casa, dove lo aspettava, non la cena, ma tante frustate, entrò nel cimitero, si stese sulla tomba della sua mamma, morta da pochi mesi e si addormentò. La mattina presto fu veduto da un uomo che andava al cimitero. Lo svegliò, lo portò a casa propria rifocillandolo con una misera colazione. Poi, avuta la promessa che non lo avrebbero picchiato come al solito, lo riconsegnò al padre. Venne la “spagnola” e anche il pastorello passò a
miglior vita. La “spagnola” Con questo nome si indica una terribile malattia influenzale, oriunda, sembra, dalla Spagna, nell’anno 1918 e diffusasi rapidamente in Europa e specialmente in Italia, negli anni successivi. A Pive San Lorenzo vi furono tanti morti, specialmente mamme, che lasciarono tanti orfani. I colpiti morivano a mente lucida. Il medico non aveva a disposizione nessun rimedio specifico se non la rassegnazione. Ai pochi guariti non lasciò nessun postumo di malattia, solo perdettero tutti i capelli. Molti suggerivano di bere vino bollito e di fumare il
sigaro per non contrarre il morbo. Da studi recenti e ricerche attuali (1988), risulta che,
questa malattia, che causò nel mondo quaranta milioni di morti, fu prodotta da
un virus killer del quale è ancora sconosciuta la natura. Gli attuali scienziati e ricercatori hanno individuato sette corpi di giovani minatori norvegesi nel cimitero di Longyearrbyen, nel Mar del Nord, Glaciale Artico, morti di spagnola e sepolti sotto il ghiaccio, perciò ancora intatti. Le salme saranno riesumate per prelevare il virus ancora
attivo e creare gli anticorpi, poiché la spagnola potrebbe riesplodere e
trovare l’umanità impreparata ad affrontarla. I morti di Pieve San Lorenzo furono tanti e tanti, e di
molti si è ormai perduta la memoria essendo trascorsi ottanta anni dalla
catastrofe. Il colera dell’anno 1884 Il colera è un morbo epidemico, cioè che si propaga rapidamente, produce vomito, diarrea, crampi dolorosissimi. La malattia è causata dal vibrione detto “bacillo
virgola”, pere la sua forma. Il colera si manifestò a Sermezzana, dicono, trasportato dalla Francia, da un paio di scarpe usate. A Pieve fece alcune vittime. Vennero i soldati e misero i cordoni, cioè il divieto di spostarsi da un paese all’altro per non diffondere la malattia. Prima di uscire, oppure entrare in paese, il viandante veniva messo in una piccola stanza chiusa, gli venivano fatti i fumenti, poi lasciato libero. Vietarono, inoltre, di suonare le campane a morto per non allarmare le persone. |
Ultimo aggiornamento: 05-06-25